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Atto IV, Scena II
Tiresia e Creonte.
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TIRESIA:
Dell’arte mia gl’indizi odi; e saprai.
Mentre io posavo su l’antico seggio
degli auspici, ove il porto a me si schiude
degli aligeri tutti, uno schiamazzo
odo strano d’augelli, che strillavano,
punti dall’estro, in voci orride e barbare,
e lacerava l’un l’altro con l’unghie
sanguinolenti. Io me n’avvidi, il rombo
dell’ali era per me sicuro indizio.
Io, sbigottito, sopra l’are, súbito
fuoco accesi ardentissimo, tentai
far sacrificio. Ma non divampò
dalla cenere il fuoco: anzi, colò
sulla cenere un viscido rigagno,
e fumava, e schizzava; e in aria il fiele
si sparpagliava; e i femori grondanti
nudi restavan dell’omento. Queste
funeree profezie d’ambigui riti
io da questo fanciullo appresi allora:
ché guida agli altri io sono, e questi a me.
E tal morbo funesta la città
pel tuo disegno: ché gli altari e l’are
pieni son della carne, che vi spargono
cani ed uccelli, dell’esposto misero
figlio d’Edipo; e quindi avvien che i Numi
né preci piú né sacrifizi accettano
da noi, né fiamma dalle pingui cosce:
né uccello emette voci intelligibili,
se vorò d’uom trafitto il grasso e il sangue.
Perciò, figlio, fa senno: a tutti gli uomini
è possibile errar; ma sconsigliato,
disgraziato non è dopo l’errore,
chi, caduto nel mal, non vi si adagia,
anzi, cerca un rimedio. Invece, taccia
ha di stoltezza la protervia. Or tu
cedi al defunto, non colpire un morto.
Sarà prodezza uccidere un cadavere?
Pel tuo bene pensai, pel tuo ben parlo;
e dolcissima cosa è dare ascolto
a chi ben parla, quando utile arreca.