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Atto V
Egisto solo.
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Seguito da una schiera di compagni armati, irrompe sulla scena Egisto.
EGISTO:
O lieta luce, o dí della giustizia,
ora sí, posso dir che i Numi vindici
le pene dei mortali dal ciel mirano,
ora ch’io vedo in questi pepli, orditi
dalle man dell’Erinni, oh mia gran gioia!
giacer quest’uomo, ed espiar l’insidia
delle mani paterne! - Atreo, signore
di questa terra, il padre di costui,
col fratel suo, col padre mio Tieste,
pel potere contese; e dalla reggia,
dalla città lo mise in bando: parlo
di cose note. Il misero Tieste
tornò, pregando, ai lari; ed ebbe certo
patto che mai non macchierà col proprio
sangue la terra dei suoi padri: questa.
Ma l'empio padre di quest'uomo, Atreo,
piú che a dolcezza a passïone ligio,
un banchetto prepara, a infinta festa
di sacrifici, e la carne dei figli
gl’imbandí sulla mensa. Questo fu
il suo dono ospitale. I piedi e l’ultime
falangi delle mani sminuzzò,
che segno umano non paresse, e in pezzi
glie l’imbandí. Non le conobbe quello,
le prese - e il cibo manducò: funesto,
come vedi, alla stirpe. Poi s’accorse
dello scempio esecrabile; e ululò,
vomitando le carni, e al suol piombò.
Ed un destino di sciagure immani
sui Pelòpidi invoca; e con un calcio
la mensa abbatte, e impreca che fine abbia
tutta cosí di Plístene la stirpe.
Ecco perché vedi costui caduto:
ed io tal morte a buon diritto ordii:
ché me, terzo dei figli, insiem col misero
padre bandí, chiuso tuttora in fasce.
Ma qui, cresciuto, mi guidò Giustizia:
e l’attacco a quest’uom diedi, pur lungi
stando dalla sua porta: ché tutte io
ordii le fila della trama infesta.
E sin morte m’è dolce, or che costui
stretto nei lacci di giustizia ho visto.