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Atto II, Scena I
Titania e Oberon.
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TITANIA: Codeste sono fantasticherie gelose. Non mai dopo il solstizio d’estate noi ci siamo incontrati sui colli, nelle valli, nelle foreste, nelle praterie, accanto alle chiare fonti od ai ruscelli adombrati di giunchi, o sulle rive del mare per compiere le nostre danze ai sibili del vento, che tu non abbia turbati i nostri sollazzi co’ tuoi clamori importuni. Perciò i venti, stanchi di farci udire invano i loro mormorii, hanno estratto dal mare, quasi per vendicarsi, vapori contagiosi, che cadendo per le campagne gonfiarono così l’orgoglio di adusti fiumicelli, che sormontato hanno le loro sponde. Il bue si prestava invano al giogo penoso: l’agricoltore ha perduto i suoi sudori e le sue fatiche; la verde biada, guastata rimaneva prima che la lanugine ornata avesse la sua giovane spica. I parchi son fatti vuoti e deserti in mezzo alle sommerse pianure, e i corvi si alimentano nella mortalità degli armenti; le palestre dei giuochi rusticani son piene di fango, e i cari laberinti che serpeggiano per le amene verzure non possono più discernersi; il filo ne è perduto. Gli uomini han divorziato dalle loro feste: non più canti, non inni, non concerti rallegrano le lunghe notti. La luna, sovrana dei flutti, pallida di sdegno, empie l’aria di esalazioni che diffondono i morbi e le pestilenze; e in mezzo a tanta intemperie le stagioni cambiano; le brine dalla bianca chioma avviluppano il seno delle rose vermiglie: il vecchio inverno mostra sul suo mento e sulla sommità della sua gelida testa una corona odorosa di teneri bottoni mietuti, e insulta all’estate. La primavera, l’estate, il fertile autunno, il minaccioso inverno mutano scambievolmente la loro divisa ordinaria; e il mondo stupito non può distinguere dai loro prodotti quale stagione regni. Tutti questi mali procedono dalle nostre dissensioni; noi soli ne siamo la cagione e gli autori.